martedì 15 gennaio 2008

La donna animalizzata di Landolfi contro il grigiore della vita quotidiana



Tommaso Landolfi nasce nel 1908 a Pico Farnese, in provincia di Frosinone. Colto intellettuale, vita appartata e passione per il gioco. Suoi referenti la tradizione ottocentesca del fantastico, l'immaginario notturno, il malinconico e sinistro orizzonte lunare, il mondo del sogno e della follia, l'animalità e i suoi personali "bestiari".
Mi affascina in Landolfi la tematica amorosa:


" Figure di donne inafferrabili e splendenti, sensuali e matalliche allo stesso tempo, con personaggi maschili che cercano in esse un abbandono totale, subendo il richiamo impossibile di una forza che affonda nelle radici oscure e nelle cavità terrestri e insieme si proietta negli spazi più sconfinati del cielo. A queste immagini di erotismo, che sempre sfuggono e si cancellano, si accompagna però un'attenzione ai caratteri più viscidi e animaleschi della sensualità, al richiamo assassino che può ad essa accompagnarsi "


Nel romanzo "La pietra lunare" (1939) un giovane studente e poetucolo di nome Giovancarlo incontra nella casa degli zii che lo ospitano una giovane per la quale prova un'istantanea, ambigua attrazione. Un sentimento di ammirazione e insieme di inquietudine. Gurù, la donna-capra trascina con sè Giovancarlo in una dimensione notturna della realtà, alternativa a quella convenzionale e stereotipata del mondo diurno, appiattito nella sua monotonia.
L'universo notturno, ambigue scene rituali di accoppiamento e pratiche sanguinarie...E poi la fine del sogno.
Il risveglio alla realtà di Giovancarlo comporta il reinserimento nella vita di tutti i giorni e l'accettazione di una Gurù "normale" che più non lo interessa.

Qui il brano della scoperta di Giovancarlo delle gambe "capresche" di Gurù:


(...) Per prima cosa si pose a osservarla. Ella s'era seduta sull'orlo della seggiola senza abbandonare all'indietro il corpo snello ed elegante, che anzi restava nervosamente rattratto, quasi preparandosi a uno slancio; una veste bianca e leggera la ricopriva, di foggia alquanto inusitata, corta di maniche e di scollo largo, ornata di ricami multicolori sul seno e piena di elastici sottotraccia, simile in qualche modo a quegli indumenti d'importazione ungherese che anche da noi adottarono, or non è molto, alcune professoresse di scuole medie per la loro villeggiatura. Il giovane seguì con viva soddisfazione la linea delle cosce affusolate, cui la stoffa aderiva strettamente, lasciò scivolare lo sguardo sul tornito ginocchio, e s'aspettava ora di scoprire una caviglia esile, un piccolo piede.
Invece...Il sangue gli si gelò nelle vene e quasi nel medesimo istante gli rifluì tutto con violenza alla bocca dello stomaco. In luogo della caviglia sottile e del leggiadro piede, dalla gonna si vedevano sbucare due piedi forcuti di capra, di linea elegante, a vero dire, eppure stecchiti e ritirati sotto la seggiola. E il curioso era che queste zampe, a guardarci bene, parevano la logica continuazione di quelle cosce affusolate; né alcuni lunghi ciuffi di pelame ruvido bastavano a stabilire un'ideale soluzione fra l'agile corpo e le sue mostruose appendici.
(...) Ad una domanda occorreva rispondere con prontezza: dove precisamente, cioè in quale punto del suo corpo, cessava la fanciulla d'esser donna per mutarsi in capra? Qui il giovane si perse in vane congetture, inutilmente tentando di solo immaginare il modo preciso e il luogo del trapasso, e l'aspetto possibile della linea d'attacco fra la vellutata pelle femminile e il pelo ferino.(...)

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