mercoledì 21 maggio 2008

Del magnifico e dignitoso parlar napoletano



L'inclinazione mia personale è stata sempre pasolinianamente verso la spontanea comunicazione dialettale e verso il "basso": i bassifondi, il popolano e il popolare, il sud, la terra contadina, gli uomini nanerottoli e in più... soffro di vertigini.
DIALETTO deriva dal greco dià-legomai (parlare insieme, discorrere, conversare) che ne sottolinea il ruolo di piano e colloquiale dialogare.
VOLGARE rimanda alla genuità del parlare propria di quel vulgus che ne è il più esclusivo depositario.
L'appellativo di VERNACOLO si rifà invece al precario e sconcio intendersi dei vernae, cioè dei figli degli schiavi ormai dimentichi dei linguaggi proprii e non ancora avvezzi a quelli dei padroni...

Che si parli di lingua o dialetto, la questione dell'etichettatura nulla toglie o aggiunge alla valenza di un "parlare", quello napoletano, provvisto di proprietà e caratteristiche tutte proprie.
Ogni dialetto è l'immagine di un popolo e ne lessicalizza il vissuto. Il napoletano rispecchia in toto il modo di essere e la dimensione della caratterialità partenopea: nelle sue pieghe si ravvisano gli echi di quel sofferto passato che tanto ha condizionato il comportamento dei napoletani, avvezzi ad alternare con disinvolta abitualità colpi d'ala e ricadute, fremiti e disillusioni, sprazzi di luce e coni d'ombra dando consistenza alla singolare ironia dolorosa, all'ossimoro, alla coincidentia oppositorum, formula che secondo me riassume la complessità dello sgangherato umano procedere.

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